Giorgio Mulè: «Dagli italici al ponte sullo Stretto, l’Italia è un sogno che continua»

Giornalista, direttore, parlamentare. Giorgio Mulè è una figura che incarna l’idea stessa del ponte tra mondi diversi. In questa conversazione intensa e personale con Claudio Brachino per il podcast Ritratti de ilNewyorkese, Mulè ripercorre le tappe della sua formazione, dagli esordi al Progresso Italoamericano a New York all’impegno per le comunità italiche nel mondo, fino alle recenti tensioni commerciali tra Stati Uniti e Italia. Un dialogo profondo che intreccia politica, cultura e memoria, mostrando come l’identità italiana possa superare ogni confine geografico.

L’avventura americana di Giorgio Mulè comincia prestissimo, a soli diciannove anni, con una telefonata inattesa che lo catapulta da Palermo a New York. «Ero vincitore di una borsa di studio al Giornale di Sicilia, ma a un certo punto un collega del giornale, trasferitosi in America, chiamò perché aveva bisogno di giovani di buona volontà per rilanciare Il Progresso Italoamericano. Nemmeno due settimane dopo, con un visto valido per tre mesi, ero su un volo Pan Am diretto a New York. Era ancora il tempo della Pan Am», racconta. È l’inizio di un’esperienza destinata a lasciare un’impronta indelebile. «Quella è stata un’esperienza che mi ha segnato per la vita, sia dal punto di vista professionale che umano. Devo a New York e agli italoamericani gran parte di quello che sono oggi». Lavorare al Progresso Italoamericano gli ha insegnato non solo il mestiere del giornalismo, ma anche il valore della comunità e della memoria condivisa.

Mulè riflette su un concetto chiave della contemporaneità italiana all’estero: l’identità italica. Una categoria più vasta rispetto a quella di cittadino italiano, che include discendenti, simpatizzanti e chiunque si riconosca nei valori culturali dell’Italia. «È una stirpe. Una discendenza che si fonda non solo sul possesso di un passaporto, ma sulla capacità di tramandare valori e ideali che sono propri dell’Italia», spiega. E cita l’esempio di Salvatore Palella, giovane imprenditore italo-americano che ha acquistato il Catania Calcio: «Un gesto che incarna perfettamente lo spirito del give back americano: restituire qualcosa alla propria terra d’origine, non per interesse, ma per amore culturale. Come lui ce ne sono tanti. E questo è un aspetto fondamentale. Il Ministero degli Esteri ha avviato il progetto del turismo delle radici, rivolto proprio agli italiani all’estero e ai loro discendenti. L’idea è quella di tornare nei luoghi d’origine, spesso piccoli borghi sotto i cinquemila abitanti, riscoprendo così il legame ancestrale con la propria terra».

Dal suo attuale ruolo istituzionale, Mulè osserva con lucidità il rapporto tra la politica italiana e le comunità italiane negli Stati Uniti. Un rapporto che, a suo dire, non è stato valorizzato a dovere: «Spesso si percepisce questa comunità come marginale, poco interessante. E invece è una comunità che vota, che è decisiva anche per l’Italia: ricordiamoci che eleggiamo deputati e senatori all’estero, anche dal Nord America. Le comunità di New York e della costa orientale sono centrali.

Per questo, da anni ormai, partecipo con piacere agli eventi istituzionali e culturali che si svolgono negli Stati Uniti, non solo in occasione del Columbus Day. La Columbus Foundation, i club italiani nel New Jersey, a New York…». Mulè sottolinea come la presenza italiana sulla costa orientale americana sia ancora oggi una risorsa di straordinario valore. E propone anche soluzioni pratiche per rafforzare il legame, come l’ampliamento dei voli diretti da Palermo e Napoli verso New York. «Anche questo è un modo per avvicinare le due sponde dell’Atlantico».

Infine, un commento sulle recenti tensioni commerciali tra Stati Uniti ed Europa, e sui dazi che rischiano di colpire anche l’Italia. Mulè non ha dubbi: «I dazi non fanno bene. Né all’Italia, né all’Europa, né — soprattutto — agli Stati Uniti». E chiarisce: «Il legame tra Italia e America va oltre i governi: non è una questione di Meloni o Draghi, né di Trump o Obama. È un legame profondo, che non si può ridurre a una dinamica commerciale». Il rischio, secondo Mulè, è che a pagare il prezzo più alto siano proprio i consumatori americani: «Se gli Stati Uniti ostacolano il commercio con l’Italia, è ovvio che dobbiamo dirottare le nostre esportazioni verso altri mercati. L’export con gli USA vale 64 miliardi, di cui 8 solo per l’agroalimentare. Dobbiamo difendere queste produzioni. E saranno gli americani, alla fine, a pagare di più: Grillo, Inzolia, Primitivo, sono vini che non si possono produrre in America. Aumenteranno i prezzi, aumenterà l’inflazione. E questo inciderà anche sul loro debito pubblico».

L’aspetto culturale, per Mulè, è forse il più emblematico. «Prima avevamo la valigia di cartone. Oggi siamo noi italiani a produrre le valigie che usano gli americani», dice con orgoglio. Un’evoluzione che simboleggia il ribaltamento di ruoli nel sogno migratorio. Ma dietro questo successo resta vivo il debito di riconoscenza verso i soldati americani — spesso di origini italiane — che hanno contribuito alla nascita della Repubblica. «Venivano dal Wyoming, dal Wisconsin, dal New Jersey…magari conoscevano solo Napoli o la pizza, ma morirono per far nascere la nostra democrazia. Così come sono indimenticabili gli italoamericani che hanno difeso l’America, dalle torri gemelle in poi. Oggi il sogno americano si è ribaltato: siamo noi italiani a far sognare gli americani. Ferrari, Maserati, Lamborghini. La moda, la ristorazione, il vino, i tartufi… L’Italia è diventata sogno per chi, un tempo, rappresentava il sogno. E questo è meraviglioso.»

In chiusura, Giorgio Mulè rivela la lezione più preziosa che l’America gli ha lasciato: «Learn, earn and give back. Impara, guadagna, restituisci. È un principio che provo ad applicare ogni giorno, nel mio ruolo e nella mia vita». E quando gli si chiede del Ponte sullo Stretto, simbolo delle sue battaglie più sentite, risponde con la stessa logica: «Non lo considero un simbolo o un monumento, ma un’opera che può davvero cambiare la storia del XXI secolo». E aggiunge: «Costruire ponti, non muri: questa è la vera missione che dovremmo perseguire, sempre. Anche con l’America».

L’articolo Giorgio Mulè: «Dagli italici al ponte sullo Stretto, l’Italia è un sogno che continua» proviene da IlNewyorkese.

Torna in alto