Gloria Peritore: la fighter che prende a pugni la violenza con The Shadow Project

Gloria Peritore è una campionessa di kickboxing e pugilato, ma non solo: è un’attivista che ha portato anche in America il suo progetto e la sua storia. Una storia che merita di essere raccontata.

Gloria, lei è uno dei rari casi di atleta in attività specializzata in coaching

Mi sono specializzata in programmazione neurolinguistica, diventando una life coach riconosciuta a livello internazionale.

Applico queste competenze al contesto sportivo, ed è qualcosa che ho utilizzato molto anche per la mia carriera agonistica. Sono stata tre volte campionessa del mondo di kickboxing e, di recente, ho conquistato il mio primo titolo nella boxe: un EBU Silver, che rappresenta un passo importante verso il titolo europeo.

Il suo soprannome, The Shadow, cosa racconta di lei?

Il soprannome mi è stato dato dopo un match a St. Louis: durante quel combattimento mi hanno definita imprendibile, come un’ombra.

Mi è sempre piaciuto perché riflette anche il mio carattere. Sono una persona introversa, che ha imparato a stare sotto i riflettori. Ma non mi dispiace stare nell’ombra tutte le volte che posso.

C’è una frase che amo particolarmente: un’ombra racconta sempre di una luce. È un pensiero che mi rappresenta profondamente. Penso che le persone che non amano stare al centro dell’attenzione, possono fare comunque grandi cose.

Nel mio caso, ho fatto grandi cose nello sport, e spero che questo possa essere d’ispirazione ad altri

Una donna che pratica sport da combattimento deve affrontare ancora tanti pregiudizi?

Si, è difficile per diverse ragioni: in primis siamo in netta minoranza.

Come dico spesso, una donna che combatte lo fa due volte: una sul ring e l’altra contro gli stereotipi e le etichette che le vengono appiccicate. Se non sei concentrata sui tuoi obiettivi, rischi di lasciarti schiacciare da questi giudizi.

Questo è già uno sport difficile di per sé: salire sul ring fa paura, richiede di affinare abilità importanti e di lavorare continuamente su se stessi. Nei momenti di vulnerabilità, le parole possono far male, anche quelle dette con leggerezza. Certi pregiudizi ti mettono in discussione, anche quando ti impegni al massimo e ottieni risultati: è come se il tuo impegno fosse un difetto.

Fortunatamente, però, in palestra questo non accade. Gli sport da combattimento mettono uomini e donne sullo stesso piano. Ci alleniamo insieme, condividiamo gli stessi valori.

Il combattimento è un’espressione di sé. C’è chi si esprime cantando, chi sul ring, chi sul tatami o in piscina. La chiave è rimanere concentrati su di sé, e questo è un insegnamento che vale non solo nello sport, ma anche nella vita.

Screenshot

Sembra proprio che lei non abbia paura di niente…

Io mi spavento di un sacco di cose, anche ora a 36 anni. Però il ring è un’altra cosa, è una paura diversa. Ed è proprio lo sport che ti aiuta ad affrontare le paure. Immagina di salire sul ring con la consapevolezza che, vincendo o perdendo, in qualche modo ti farai male. Non è semplice.

Che rapporto ha con la sua famiglia?

La mia famiglia è il mio porto sicuro. Mia madre è il mio modello di vita. Ex sportiva e professoressa di educazione fisica, è stata lei a trasmettermi l’idea dello sport come terapia: qualcosa di sano e fondamentale per il benessere. Con mio padre ho un rapporto bellissimo: è da lui che ho imparato il rispetto per me stessa e i valori del perdono, inteso nel senso più profondo, e della compassione.

Poi c’è mia sorella, Giorgia, che è una stilista. Anche lei per me è un faro nel buio. Posso viaggiare per il mondo, andare ovunque, ma quando sento il bisogno di aprirmi davvero, torno sempre da loro.

Il progetto The Shadow Project è un’iniziativa che diffonde contenuti sociali importanti, come la sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Com’è diventata una fighter testimonial di progetti contro la violenza?

Dopo aver raccontato pubblicamente di una mia relazione tossica sono stata invitata in diverse scuole e organizzazioni a parlare della mia esperienza, ma passava un messaggio che a me non piaceva: quello della “vittima sopravvissuta” o, ancora peggio, di insegnante di autodifesa contro il genere maschile. Così ho fondato The Shadow Project insieme allo sportello di ascolto e alla campagna antiviolenza #FIGHTTHEVIOLENCE. Vogliamo dimostrare che la violenza non è quella che avviene sul ring. Quando due pugili salgono sul quadrato, vedono un obiettivo, una gara, una tecnica da applicare, dei punti da conquistare.

La vera violenza è quella che nega la libertà altrui e questo avviene fuori dal ring. Noi fighters accettiamo liberamente il rischio di andare al tappeto, come c’è chi accetta il rischio di lanciarsi da un aereo con il paracadute. È solo una questione di prospettive.

L’abbraccio degli atleti a fine incontro riassume tutto. Raramente si vedono scorrettezze o gesti antisportivi.

Capire questa differenza è fondamentale e, quando ci arrivi, cambia tutto. Succede anche nelle scuole, quando i genitori hanno paura di far praticare ai figli sport come la kickboxing o la boxe. Poi scoprono che queste discipline insegnano ai ragazzi a incanalare l’aggressività in modo costruttivo, a gestirla. Credo che veicolare questo messaggio sia uno degli aspetti più importanti di ciò che facciamo.

Il ring è un po’ una metafora della vita, dunque…

Decisamente. Questo tipo di sport ti mette davanti a emozioni forti, come l’ansia, ma ti insegna anche a gestirle. 

Con The Shadow Project, non porto avanti il messaggio che bisogna diventare tutti campioni per realizzarsi nella vita. Al contrario: invito le persone a provare uno sport che preveda un confronto diretto con gli altri, anche senza contatto fisico eccessivo, proprio per iniziare a scoprire e conoscere gli aspetti più profondi di sé stessi.

Ha portato The Shadow Project a Filadelfia e Detroit. È stata a New York?

Si. Il mio sogno era quello di vedere New York. In due mesi ci sono stata due volte, quindi è stato più che superato.

Ho visto una New York molto fantasiosa. La prima volta ho passato 2 giorni su 3 in palestra a fare da sparring ad una super campionessa, la seconda volta l’ho vissuta meglio.

Ti offre di tutto, quindi se hai un periodo della vita in cui sei un po’ confuso, non sai che fare, vai lì e ti schiarisci le idee.

I ritmi della città sono così frenetici come si dice?

A seconda di come te la vivi. Io l’ho vissuta molto bene. È vero che, come dice il mio compagno, “tu in America sei un po’ dopata”. 

Non riesco a stare ferma un attimo, mi piace vedere tante cose, l’ho vissuta alla grande. Non ho percepito frenesia, anche per le strade. In tv ti fanno vedere la gente che corre con la valigetta. Non è proprio così.

C’è un posto che le è rimasto nel cuore? 

Sicuramente Central Park perché io amo tanto la natura: è davvero un luogo suggestivo, in mezzo a mille grattacieli. Se dovessi abitare a New York, ci andrei due o tre volte a settimana a scrivere e a meditare. Mi mette molta serenità.

Pensa che ci possa essere un The Shadow Project anche a New York?

Lo spero in futuro. Spero che questo progetto si possa espandere più possibile. Gli Stati Uniti in generale sono anche la patria della boxe.

Gli sport da combattimento sono molto sentiti, quindi penso che, lavorando bene, in futuro si possa approdare anche lì. Vi rivelo un sogno nel cassetto: a me piacerebbe fare di nuovo un match negli Stati Uniti, per sancire questo mio amore. Chissà, magari l’ultimo. Il primo match importante è stato lì. Chissà che non chiuda la carriera in America.

L’articolo Gloria Peritore: la fighter che prende a pugni la violenza con The Shadow Project proviene da IlNewyorkese.

Torna in alto