Massimiliano Finazzer Flory racconta il mito di Arconati e la cultura italiana a New York

Massimiliano Finazzer Flory è un autore, regista e interprete italiano che da anni porta la cultura italiana nel mondo attraverso il teatro, il cinema e la recitazione. A New York – dove è sempre molto attivo da anni, offrendo film e spettacoli – ha presentato il suo ultimo film documentario Il Mecenate – titolo internazionale The Patron, dedicato alla figura di Galeazzo Arconati – prodotto dalla Fondazione Augusto Rancilio, e porterà poi in scena una lettura teatrale della Divina Commedia alla Basilica di St. Patrick’s Old Cathedral. Lo abbiamo intervistato per parlare di miti, mecenatismo, memoria e futuro.

Che cosa l’ha ispirata a raccontare la figura di Galeazzo Arconati in questo modo?
I miti. Sono stati fonte di ispirazione per Arconati e per tutti coloro che credono che il mito sia un’esperienza anche fisica della conoscenza, perché parte dal corpo, dal nostro corpo. E qui entra in scena Leonardo da Vinci, amato da lui e da me. Leonardo è diventato mito di sé stesso anche grazie ad Arconati, che ne possedette e donò il Codice Atlantico, la “Bibbia laica” della nostra cultura.

Nel film lei esplora il confine tra mito e storia. Qual è il valore di restituire voce ai miti del passato nell’epoca ipermediale che viviamo?
L’intelligenza artificiale è frutto di quella naturale. Che poi sia acerba oppure la mela del paradiso perduto, dipende da noi. In fondo, dai Greci a oggi, non è cambiato nulla: abbiamo sempre bisogno di idoli, di storie, di cosmi, di simboli, di vittorie e sciagure da raccontare. Vogliamo sempre appartenere a un’epoca diversa dal nostro presente.

Lei fa riferimento al “Rinascimento mentale” come progetto per il futuro. Cosa intende con questa espressione e come si attua il mecenatismo contemporaneo?
Rinascere prevede il morire di qualcosa o di qualcuno a cui dobbiamo e vogliamo preservare la voce. Il Rinascimento, dunque, è una nuova vita che non dimentica la precedente, ma la trasforma, le offre speranza, fede, carità. E assegna all’arte il compito di costruire una comunità, dove la bellezza diventa progetto: l’unica oggettività della nostra vita. Oggi ci si preoccupa troppo di dare valore al patrimonio esistente, senza sapere riconoscere e sostenere quello che verrà.

Nel film ha inserito diverse voci. Quanto è importante creare un dialogo multidisciplinare nel racconto?
Confesso che vedo sempre il mondo come un tutto in relazione. Certo, per capirci possiamo guardare le stelle con la teologia e con l’astrofisica, di notte in barca a vela oppure con il telescopio. Ma sempre è l’uomo, il “chi siamo”, il protagonista del teatro che mi interessa.

Cosa significa per lei presentare la sua opera a New York?
Amore ed emozione, sempre. Tornare a quella che ritengo la più straordinaria delle esperienze umane, cioè lo “stare insieme”. New York è ancora questo: movimento di vita, una modernità che fa parte della nostra eredità.

La sua lettura dantesca sarà raccontata nella Basilica di St. Patrick’s Old Cathedral, un luogo simbolico per la comunità italoamericana e il primo evento dopo la morte del Pontefice. Cosa si aspetta?
Dante è un profeta e si sacrifica per noi in un viaggio di cui abbiamo sempre bisogno. Dal perdono al dono. Dante non commenta l’esistente: lo accresce. La sua macchina del tempo ci riporta ai ricordi e ai sogni. Ma tutto quello che succede è vero. Mi aspetto commozione.

La sua carriera è stata attraversata da cinema, teatro e letteratura. Tre linguaggi che ha tenuto insieme. Si tratta di una scelta per rendere complementare la narrazione, o di passioni che si uniscono?
È una famiglia di generi, che in attesa di un capotavola discorre tra loro. Un Cenacolo vivente dove verità e tradimento stanno insieme. Così immagino il necessario dialogo di una storia in realtà unica.

Quale di questi linguaggi sente più vicino?
Rimango un uomo di teatro, perché la parola è zenit e nadir, è luce tra i tanti dubbi del nostro essere qui. Mi piace essere un corpo che si fa carne in palcoscenico.

Siamo nella Grande Mela. Quanto è importante diffondere qui la cultura italiana?
Perché la mela sia grande, serve un albero e delle radici adeguate alla terra. La nostra cultura ha una visione organica: non guarda solo al morso, ma anche alla mela stessa come opera d’arte. E a New York questo approccio può diventare lifestyle.

Il suo prossimo progetto?
Sono due. Stiamo girando con il Friuli Venezia Giulia un docufilm su Carlo Michelstaedter, un filosofo sorprendente che anticipa il male e il bene del Novecento con una domanda: che cos’è l’Europa? E poi gli Stati Uniti: a New York e a Miami ci sono segreti che stiamo per scoprire. In autunno, invece, vorrei riportare in scena Essere Leonardo da Vinci – Un’intervista impossibile, uno spettacolo teatrale che considero imperdibile e che debuttò proprio a New York, alla prestigiosa Morgan Library, con un sold out.

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